"Art must be beautiful". Ma l'arte deve essere bella? Un racconto dall'Art Tour Bergamo dedicato a Marina Abramovic
- Petra Cason Olivares
- 27 giu 2024
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 4 mar
Art must be beautiful, Artist must be beautiful. (L’arte deve essere bella, l’artista deve essere bello/a.)
Marina Abramovic ripeteva compulsivamente questo enunciato come un imperativo mentre, durante una performance si spazzolava in maniera ossessiva i capelli fino a strapparseli dalla testa.
L’arte deve essere bella? E’ questo l’interrogativo sul quale l’artista ci invita a riflettere. L’arte non è decorativa, l’arte, soprattutto quella contemporanea - che con gli Art Tour cerchiamo di conoscere sempre più da vicino per capirne assieme le caratteristiche sfidando le iniziali perplessità - l’arte, dicevamo, deve portarci a riflettere, deve permetterci di cambiare il nostro approccio nei confronti del mondo, deve arricchirci non solo in termini estetici. Altrimenti il suo intento è vano. L’arte contemporanea può essere respingente: lo dico spesso quando parlo della “sfida” che compiamo di mese in mese con NUMA nel proporre occasioni di incontro con artisti sempre più recenti e, per gran parte del pubblico, sempre più criptici! Ma è questa complessità che ci muove alla curiosità di comprendere, di approfondire sempre di più ciò che abbiamo di fronte ai nostri occhi.
Gli artisti contemporanei utilizzano gli strumenti propri del loro tempo, e parlano al pubblico del loro tempo - quindi a noi! - con l’immediatezza e il trasporto della loro azione. Non sempre l’opera d’arte è un “oggetto” nel senso più classico del termine, ovvero una “cosa” inanimata. Può essere, letteralmente, una presa di posizione nello spazio, un’azione che si ripete nel tempo, un invito al pubblico all’interazione, ovvero a creare la congiunzione tra l’intento dell’artista e l’attivazione dell’opera d’arte stessa.
Oramai l’opera d’arte non è (quasi) più dentro i contorni di una cornice: l’arte si fa spazio, diventa ambiente che accoglie al suo interno lo spettatore, che da elemento esterno diventa parte integrante dell’opera stessa. Pensiamo alle Infinity Mirror Room di Yayoi Kusama, di cui abbiamo fatto esperienza nell’art tour di Febbraio 2024: una stanza tutta per noi - anche se solo per un minuto - dove entrare in contatto con l’infinito! (secondo la visione della nonagenaria artista giapponese). Dall’esterno si presentava come un anonimo cubo nero. All’interno si è aperto per noi lo spazio grazie agli specchi, l’acqua, i punti luce variopinti che si riflettevano a perdita d’occhio, trasportandoci in una dimensione nuova.

L’arte (contemporanea) può apparire violenta. Può crearci fastidio o repulsione. In questi casi, andando oltre ma non tralasciando l’esperienza alla quale la visione/fruizione di alcune opere ci comporta, dobbiamo interrogarci su cosa lascia in noi, in seconda battuta questo contatto con l’opera. Ognuno crei per sé la propria personale risposta.
La mostra “Between breath and fire”, che abbiamo visitato in occasione del primo art tour del 2025 nel nuovissimo spazio espositivo Gres Art 671 di Bergamo, ha creato in noi - pubblico - moltissimi interrogativi. Stupore, disgusto, perplessità, ammirazione. E’ stato bello poterne discutere durante un pranzo assieme, al termine del tour. La conversazione è stata ricca e stimolante.
Il mio racconto è cominciato direttamente sul minibus privato che, da Vicenza, ci ha accompagnati comodamente fino all’ingresso dello spazio espositivo. Un excursus della vita di Abramovic è stato doveroso, anticipando le fasi che hanno contraddistinto il suo lungo e articolato percorso artistico. Una volta in mostra, indossati gli auricolari delle radioguide, la narrazione ha accompagnato la visione condivisa delle molte opere presenti in sala.
L’artista serba, forse una delle performer più note in assoluto al “grande pubblico”, ormai superati i settant’anni, non si dedica di frequente alle performance come invece ha fatto per gran parte della sua vita. Pertanto all’interno delle sue mostre è possibile conoscere il suo lavoro attraverso fotografie ma soprattutto moltissimi video realizzati in occasione degli interventi dal vivo (unicum) che Abramovic ha realizzato a partire dagli anni Settanta: nelle performance l’artista usa solo il suo corpo, molto spesso nudo - in balia degli eventi - intervenendo con e su di esso nei modi più svariati. Le azioni violente risvegliano le nostre coscienze sopite di spettatori inermi, portandoci a voler intervenire sull’azione che inevitabilmente viviamo. La fortissima disciplina alla quale Abramovic era abituata a sottostare - quella dei genitori, militari e figure di spicco nel regime comunista di Tito nella Ex Jugoslavia - è ciò che le ha permesso di compiere sul suo stesso corpo interventi per noi apparentemente folli, di autolesionismo, che ne mettevano a repentaglio salute e vita. Ma non c’è finzione nell’arte, non siamo a teatro quando assistiamo ad una performance: quel rosso che vedi sulla carne è sangue, non ketchup (cit.). La pelle è quella dell’artista, la lametta che ha tra le mani è affilata, la stella a cinque punti che incide sul suo ventre le provoca una ferita reale. E anche la nostra reazione (seppur di fronte al video che ritrae l’azione e ci permette di esserne testimoni a 50 anni di distanza) è autentica.
La mostra bergamasca ci ha permesso di addentrarci nella pratica dell’artista seppur non fisicamente presente, dicevamo. In questo caso non erano presenti neppure i giovani performer che lei stessa forma nel programma del MAI - Marina Abramovic Institute (se siete curiosi di partecipare ad una delle sue mastercalss cliccate sul link per saperne di più, è aperto a tutti… pagando un fee di 2500 $) e che, in occasione delle grandi mostre antologiche, ripropongono le sue performance storiche.
D’altronde, è Abramovic stessa che ha trovato per sè il modo di dare lunga vita ad un tipo di arte che per sua natura è effimero. La performance esiste nel momento esatto in cui l’azione avviene, ed è concreta esclusivamente per chi, in quel preciso istante, ne è diretto spettatore. Ma, al termine dell’azione performativa, cosa resta? Se l’artista è attento come lo è sempre stata Abramovic, che ha costruito negli anni un imponente archivio, rimangono dei documenti tangibili, dei “memorabilia”: le fotografie che hanno immortalato su carta i passaggi salienti dell’azione, la registrazione audio e video totale o parziale (con tutta la fragilità del supporto, immaginate la scarsa qualità di un video su nastro degli anni Settanta, giunto fino a noi, con la trama grossolana dell’immagine e i contrasti tra bianco e nero troppo o troppo poco accentuati). Oppure, in parte o del tutto, gli oggetti utilizzati sulla “scena”: pensiamo al tavolo sul quale erano posati i 72 oggetti “di violenza o di piacere” che componevano la scena di “Rhythm Zero”, la famosissima performance che Marina eseguì allo Studio Morra di Napoli nel 1974. L’artista rimase per sei lunghe ore in balia del pubblico, che letteralmente dava vita alla performance, utilizzando con licenza dell’artista stessa, tutti gli oggetti messi a disposizione sul vero “oggetto” del contendere: una impassibile e resiliente Marina.
Di quella traumatica esperienza rimangono alcuni scatti in bianco e nero, un video sgranato e la riproposizione del tavolo imbandito con coltelli, barattoli di miele, vino, rose e una pistola carica…

La prima sezione della mostra bergamasca era dedicata al respiro, “Breath”, e tra le performance riproposte tramite la documentazione video c’erano anche due delle tre che componevano la serie “Freeing”, realizzate da Marina negli anni Settanta. In “Freeing the voice” l’artista urla a squarciagola finché dalla sua bocca spalancata non esce più nemmeno un suono. In “Freeing the memory”, Abramovic compie un complesso esercizio di concentrazione, pronunciando quante più parole emergono nella sua mente, senza soluzione di continuità, finché queste d’un tratto non si esauriscono, lasciandola costernata e muta.

Per la sezione “Body” sono i video delle performance “Lips of Thomas” e “Dissolution” che scuotono i nostri sguardi. Non si può non provare un certo sgomento, nell’osservare la mano ferma dell’artista che incide sul suo ventre un pentagramma che prende a colare sangue, tingendole inevitabilmente la pelle tesa.
O guardandola tremare oltre la soglia del dolore dopo essersi inflitta una lunghissima serie di frustate sulla schiena nuda. Varcare la porta del dolore fisico, dice l’artista, la apre a dimensioni che trascendono dalla fisicità del corpo, elevano lo spirito e portandolo ad una consapevolezza maggiore, di estrema profondità.

“The Other”, la terza sezione, ci mostra la relazione dell’artista con l’altro, che sia il pubblico, invitato a ballare su un rettangolo di luce in vece di un palco, all’ombra di un tango balcanico (“Spirit House - Dissolution”), o che sia l’alter ego di Marina, il “suo” Ulay, compagno di Abramovic dal 1975 al 1987 e contraltare ad ogni sua azione di quel periodo. Performance come “Imponderabilia” o “Rest Energy” mostrano quanto un rapporto come il loro sia arrivato, nella vita e nell’arte, ad assumere un grado di simbiosi tale da renderli inscindibili, due parti di un’unica potente entità.
Esaurito l’amore, la fine arrivò per consunzione.

L’ultima sezione della mostra è dedicata al tema della morte, “Death”, ma non tanto quella dell’artista (che Abramovic ha già pianificato nei minimi dettagli, considerando la propria dipartita terrena quale la sua ultima grande performance!), quanto quella della grande cantante lirica Maria Callas.
Un completo cambio di paradigma: seduti sulle seggioline di quello che appariva come un piccolo cinema d’essai, abbiamo assistito ad una serie di cortometraggi nei quali l’artista interpretava le sette (più una) morti cantate dalla Divina nelle sue più famose arie d’opera. (Questa “operazione” inusuale per Abramovic era stata realizzata dall’artista nel 2023 in occasione del centenario della nascita della Callas, e presentata per la prima volta in teatro, in un misto tra performance e finzione).
Tragiche morti per altrettanto tragiche eroine, interpretate cinematograficamente, e in una versione spiccatamente contemporanea e hollywoodiana, da Abramovic nella parte della dama sofferente di turno (Carmen, Tosca, Lucia Ashton, Butterfly, Norma, Desdemona, Violetta Valery, e la stessa Callas - morta a seguito di un attacco cardiaco) e da Willem Dafoe, nei panni dell’antagonista o coprotagonista.
Ma dov’è finita la realtà che permeava le performance di Abramovic fino al decennio scorso? Qui la finzione cinematografica è compiuta e totale: non c’è margine di fraintendimento, la performance è quella di un’attrice navigata, che lascia il pubblico vagamente interdetto, dopo aver assistito alla carrellata di lavori storici presenti in mostra.
D’altronde il fratello di Marina, Velimir, ha sempre sostenuto che la sorella, in realtà fosse un’attrice mancata, e che tutto quel “drama” che portava nelle performance dal vivo l’avrebbe provato senza dubbio anche sul grande schermo.
Ma sapete che c’è? Superati i settanta, e lungo il declivio di una lunga e brillante carriera, Marina sostiene di poter fare qualsiasi cosa si senta di fare. Beh, in effetti, come dargli torto?!

Ph. courtesy Luigi De Frenza Testo di Petra Cason Olivares
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